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Si fa presto a dire vello


L’interesse che avete mostrato per i contenuti tecnici ci spinge a continuare a parlare della nostra passione anche in termini operativi. Questo interesse all’approfondimento, che riteniamo fondamentale per costituire la base di un sapere profondo, ci fa pensare che siamo sulla buona strada.

Immaginiamo quindi di frequentare insieme un corso formativo elementare, indispensabile per il successivo perfezionamento, ovviamente dedicato alle sapienze manuali, quelle già proposte con successo nel 2011. Nell’arco di quest’anno le riconfermeremo, ampliandone le dimensioni e approfondendone i contenuti: knitting, felt, wawing, dyeng, design, fashion (per usare una terminologia aggiornata che ci metta in relazione con il resto del mondo).

Come alla scuola elementare s’insegna a tenere in mano la matita e a tracciare segni riconoscibili sul foglio, eccoci a trattare la base dei nostri lavori in lana: il vello. Non stupisca il fatto che, a fronte di una notevole quantità di manuali e testi scientifici sulle fibre e sulle singole lavorazioni industriali, ci si riduca a queste righe per focalizzare l’attenzione sul consueto, quello che tutti abbiamo sott’occhio e di cui, dandolo per scontato, sappiamo poco o nulla. Lasciamo i microscopi alle università, avviciniamoci alla pecora e, docilmente come lei stessa ci ha insegnato a fate, guardiamola e tocchiamole il vello. Chissà che quest’esplorazione non ci sia d’aiuto per apprezzarne maggiormente le peculiarità e per suggerire modalità più proficue di gestione delle tose.

La lana che la ricopre non è sicuramente uniforme né per lunghezza né per finezza, né per pulizia e tanto meno per colore. Se confrontassimo contemporaneamente pecore di razze diverse, ci accorgeremmo della differenza intima e sostanziale dei velli – colore, finezza, lunghezza, nervosità – ma apprezzeremmo il fatto che le disomogeneità di uno stesso vello si ripetono in modo pressoché identico su tutti, a seconda della loro posizione sul corpo dell’animale. In particolare la lana sul collo e sulle spalle risulta più fine e morbida, quella sulle parti posteriori più secca e gialla, quella sulla schiena più fragile, quella sulle cosce spessa e quella sulle gambe ruvida e ordinaria.

Un’osservazione banale e tuttavia chiarificatrice: anche su uno stesso animale la fibra non è identica e, di conseguenza, trattare tutto il vello indifferenziatamente significa solo penalizzare le parti più nobili e diminuirne il valore commerciale. Una volta comprese le differenze, è bene separare le parti in relazione all’uso che intendiamo farne, evitando per quanto possibile di operare divisioni troppo minute, ben consapevoli di quanto intendiamo realizzare: per esempio, una maglia da uomo o una coperta è bene che siano realizzate con fibre melangiate di qualità diversa, in modo da prevedere una buona uniformità del filato (e non restare senza proprio all’ultimo gomitolo).

A seconda delle dimensioni (variabili di razza in razza), si usa suddividere il vello in tre o quattro differenti qualità che, all’insegna della massima semplicità ed efficacia, riportiamo schematizzate qui sotto, laddove 1 indica la qualità “migliore” e 4 quella “peggiore” (ovviamente virgolettato, in quanto migliore e peggiore sono aggettivi relativi all’impiego e non assoluti).

Una volta separato il vello come sopra, dovrete decidere se lavarlo o no, dipende da quanto è sporco (e anche qui leggete un appunto sulle modalità di allevamento). In molti casi è bene procedere alla sola rimozione del vegetale e delle parti ricche di materia organica, in modo tale da mantenere sulla fibra il grasso di lana e la lanolina che potranno favorire le lavorazioni successive. In ogni caso ponetelo all’interno di federe in cotone, traspiranti ma chiuse, e segnate sopra ciascuna il contenuto: razza, data, allevamento, qualità. Ne potrete così fruire agevolmente quando ne avrete bisogno.

Un ultimo consiglio: le parti meno adatte a essere lavorate perché sporche, infeltrite, ingiallite, troppo ricche di materiale organico, potranno essere efficacemente impiegate nell’orto, mescolate a compost o concime. Della lana non si butta nulla.

Ancora un ringraziamento a Deborah Gray che ha raccolto sapientemente parte di queste informazioni nel suo prezioso testo Filare a mano: come creare bei filati

Esse e zeta

Quando tra qualche anno guarderemo alle testimonianze che lasciamo giorno dopo giorno su queste pagine, confidiamo di ritrovarci tra le mani una sorta di manuale della lana, dei velli, delle lavorazioni e delle fonti di ispirazione.

Durante il suo workshop sulla filatura manuale Deborah Gray c’è stata di enorme aiuto per comprendere il significato della terminologia tecnica che caratterizza un filato, specie se realizzato a mano. Uno dei dubbi su cui ha fatto piena chiarezza è il significato di “torsione S” e “torsione Z”. Un filato viene realizzato unendo fra loro più fibre elementari, che stanno insieme conformemente alla loro natura, lunghezza, finezza e alle caratteristiche meccaniche che vengono loro impresse. Filando, infatti, le fibre vengono sottoposte a un movimento di “avvitamento”, che è inversamente proporzionale alla tendenza delle stesse a restare unite tra loro: in pratica, più le fibre manifestano la naturale tendenza a stare unite, minore è lo sforzo richiesto per ottenere tale risultato.

Prendendo in mano un filato e osservandolo attentamente, si pone subito una questione: da che parte avvitare le fibre? Queste infatti si possono avvolgere da sinistra in basso verso destra in alto (torsione Z), o viceversa da destra in basso verso sinistra in alto (torsione S).

Realizzando a mano un filato a un solo capo, si comprende immediatamente come questo non sia in equilibrio, ovvero tenda a ritorcersi su se stesso arricciandosi e stringendo ancora di più le fibre, condizione che lo rende, di fatto, inutilizzabile. È però affascinante scoprire che accoppiando tra loro due filati così instabili, a patto che lo siano allo stesso modo (S o Z), le forze “distruttive” si annullano dando origine a un nuovo filato che ha trovato un suo equilibrio perfetto perché torto esattamente con la metà della torsione del filo singolo. Così due filati disequilibrati di torsione Z si accoppiano fra loro generando un filato S in perfetto equilibrio (naturalmente vale anche il contrario) ciascuno cedendo metà della propria dote di torsione.

A questo punto non c’è limite alla fantasia e, compreso il meccanismo, si potranno accoppiare altri filati a patto che abbiano lo stesso verso di torsione. Per esempio sarà possibile realizzare un filato a tre capi, accoppiando due capi S (Z+Z) con uno a un solo capo di torsione S: insieme daranno origine a un filato Z. Semplice, vero? Provare per credere.

In conclusione, è facile osservare che dal punto di vista della stabilità del filato un buon prodotto sarà sempre ritorto e mai a un ply singolo. Solo in questo modo non tenderà a sciogliersi. Viceversa il filato a un solo ply tenderà a srotolarsi anche quando sarà già stato trasformato, per esempio in maglia, causando da subito lo “sbilanciamento” dell’intero capo finito, specie al primo lavaggio, quando le fibre tenderanno a rilassarsi.

Vi lasciamo con un ultimo suggerimento ricevuto dalla nostra maestra: «Quando archiviate un filato che avete realizzato a mano, indicate se è Z o S: così potrete abbinarlo correttamente a seconda che lo sposiate con un filato S o Z». A questo punto, via alla marcia nuziale e… buoni lavori.