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La posta dei lettori: l’allevamento, un sogno possibile

Riceviamo e con piacere pubblichiamo la mail di Chiara, lettrice di The Wool Box.

Dopo aver visitato il vostro sito, una certa esitazione e vari ripensamenti, ho deciso finalmente di scrivervi. Non si tratta di un preambolo a un curriculum vitae, un lavoro ce l’ho, e non sto neppure per raccontare la storia della mia vita. Piuttosto è la storia di un percorso che mi ha portato di recente a Miagliano.

Amo gli animali – ho un contatto costante soprattutto con cani e gatti – e lavoro a maglia con entusiasmo, anche se non ho molto tempo libero per realizzare i miei progetti. I grossi animali sono da sempre un’altra passione, anche se non ho mai potuto prendere in considerazione seriamente la possibilità avere una bovina Valdostana castana da compagnia, o una pecora Biellese come tosaerba ecologico per il praticello davanti a casa.

Negli ultimi tempi, anche leggendo dello sfruttamento intensivo delle pecore Merino in Australia e Nuova Zelanda e della miseranda fine a cui sono avviate a fine carriera, mi sono posta delle domande e ho ripensato seriamente ai grossi animali… ma in che veste? Come potenziale allevatore? Non ci credo neppure per un attimo. Ho un grosso limite quando si parla di bestie. Le mie avrebbero tutte un nome, ne osserverei la diversa personalità, le guarderei crescere, mi legherei affettivamente tanto da non poterle “usare” economicamente. Ma una zootecnia “fiabesca” non è né reale né economicamente produttiva.

I bovini sono animali bellissimi, ma poi? Allevarli per la carne, per il latte? So che non ne sarei capace. Crescerli solo per il puro piacere di vederli vivere richiede finanze che non possiedo. E allora capre e pecore… qui forse uno spiraglio c’è. Più piccole, meno impegnative, meno costose da mantenere. E allevarle per vederle vivere e per produrre lana non comporta sofferenza per nessuno.

Tutti però provano a dissuadermi. Mi assicurano che allevare degli ovini per la lana è assolutamente antieconomico. Sui testi di agraria e sui libri che trattano di razze ovine la lana è sempre indicata come uno scarto senza valore. Perché?, mi chiedo. Quanti capi di vestiario in lana ha in casa ognuno di noi? Guanti, sciarpe, maglie, tappeti, tessuti d’arredamento… Da dove vengono tutti questi oggetti più o meno costosi fatti con uno “scarto senza valore”? Il colpo finale viene da un libretto sull’allevamento della pecora. In particolare mi colpisce un capitolo intitolato Lana, un male necessario.

E poi produrre lana per impedire che scompaiano razze storiche locali, per contribuire a mantenere concretamente la biodiversità, per fare qualcosa che si opponga all’appiattimento e alla distruzione delle piccole realtà artigiane locali, per mantenere un legame con la natura e conservare il territorio e, non ultimo (almeno per me), per non dover pensare di vendere o macellare i propri animali ha un senso, oppure sono solo fantasie senza fondamento di un sognatore che vorrebbe, ma che non riesce ad ancorare una sua visione utopica del rapporto con gli animali a una realtà che possa essere anche economica? È davvero inconciliabile il mio sentire con la possibilità di guadagno? Sembra proprio di sì.

Sono a un punto morto, poi per caso incontro le parole “Biella The Wool Company”, leggo della mostra Wools of Europe… la visito e si riaccende l’entusiasmo. Grazie! Toccare con mano che qualcuno riesce ad allevare un suo gregge, creare con la sua lana degli oggetti e vendere un prodotto finito artigianale con un alto valore aggiunto è stata una scoperta inaspettata.

Così, in senso proprio e in senso figurato ora accarezzo una nuova idea. Nel frattempo però la pecora Saltasassi è virtualmente estinta e la Savoiarda resiste anche grazie a un “allevatore custode”.

Ma forse un’attività non esclude necessariamente l’altra. Sicuramente non mi impedisce per ora di documentarmi, leggere, studiare, magari partecipare al vostro prossimo corso di filatura, e pensandoci bene mi piacerebbe anche imparare a produrre il feltro. Ho già in mente il progetto di una coperta con un soggetto animale: i vari colori potrebbero essere quelli di lane naturali in toni diversi, come quelli del vello di una pecora Jacob (e vogliamo parlare dell’emozione di essere la felice proprietaria di una pecora anche quadricorna?).

Così, nei ritagli di tempo, lavoro a maglia, mi dedico alle mie creazioni e medito.

Cordialmente

Chiara

 

Si fa presto a dire vello


L’interesse che avete mostrato per i contenuti tecnici ci spinge a continuare a parlare della nostra passione anche in termini operativi. Questo interesse all’approfondimento, che riteniamo fondamentale per costituire la base di un sapere profondo, ci fa pensare che siamo sulla buona strada.

Immaginiamo quindi di frequentare insieme un corso formativo elementare, indispensabile per il successivo perfezionamento, ovviamente dedicato alle sapienze manuali, quelle già proposte con successo nel 2011. Nell’arco di quest’anno le riconfermeremo, ampliandone le dimensioni e approfondendone i contenuti: knitting, felt, wawing, dyeng, design, fashion (per usare una terminologia aggiornata che ci metta in relazione con il resto del mondo).

Come alla scuola elementare s’insegna a tenere in mano la matita e a tracciare segni riconoscibili sul foglio, eccoci a trattare la base dei nostri lavori in lana: il vello. Non stupisca il fatto che, a fronte di una notevole quantità di manuali e testi scientifici sulle fibre e sulle singole lavorazioni industriali, ci si riduca a queste righe per focalizzare l’attenzione sul consueto, quello che tutti abbiamo sott’occhio e di cui, dandolo per scontato, sappiamo poco o nulla. Lasciamo i microscopi alle università, avviciniamoci alla pecora e, docilmente come lei stessa ci ha insegnato a fate, guardiamola e tocchiamole il vello. Chissà che quest’esplorazione non ci sia d’aiuto per apprezzarne maggiormente le peculiarità e per suggerire modalità più proficue di gestione delle tose.

La lana che la ricopre non è sicuramente uniforme né per lunghezza né per finezza, né per pulizia e tanto meno per colore. Se confrontassimo contemporaneamente pecore di razze diverse, ci accorgeremmo della differenza intima e sostanziale dei velli – colore, finezza, lunghezza, nervosità – ma apprezzeremmo il fatto che le disomogeneità di uno stesso vello si ripetono in modo pressoché identico su tutti, a seconda della loro posizione sul corpo dell’animale. In particolare la lana sul collo e sulle spalle risulta più fine e morbida, quella sulle parti posteriori più secca e gialla, quella sulla schiena più fragile, quella sulle cosce spessa e quella sulle gambe ruvida e ordinaria.

Un’osservazione banale e tuttavia chiarificatrice: anche su uno stesso animale la fibra non è identica e, di conseguenza, trattare tutto il vello indifferenziatamente significa solo penalizzare le parti più nobili e diminuirne il valore commerciale. Una volta comprese le differenze, è bene separare le parti in relazione all’uso che intendiamo farne, evitando per quanto possibile di operare divisioni troppo minute, ben consapevoli di quanto intendiamo realizzare: per esempio, una maglia da uomo o una coperta è bene che siano realizzate con fibre melangiate di qualità diversa, in modo da prevedere una buona uniformità del filato (e non restare senza proprio all’ultimo gomitolo).

A seconda delle dimensioni (variabili di razza in razza), si usa suddividere il vello in tre o quattro differenti qualità che, all’insegna della massima semplicità ed efficacia, riportiamo schematizzate qui sotto, laddove 1 indica la qualità “migliore” e 4 quella “peggiore” (ovviamente virgolettato, in quanto migliore e peggiore sono aggettivi relativi all’impiego e non assoluti).

Una volta separato il vello come sopra, dovrete decidere se lavarlo o no, dipende da quanto è sporco (e anche qui leggete un appunto sulle modalità di allevamento). In molti casi è bene procedere alla sola rimozione del vegetale e delle parti ricche di materia organica, in modo tale da mantenere sulla fibra il grasso di lana e la lanolina che potranno favorire le lavorazioni successive. In ogni caso ponetelo all’interno di federe in cotone, traspiranti ma chiuse, e segnate sopra ciascuna il contenuto: razza, data, allevamento, qualità. Ne potrete così fruire agevolmente quando ne avrete bisogno.

Un ultimo consiglio: le parti meno adatte a essere lavorate perché sporche, infeltrite, ingiallite, troppo ricche di materiale organico, potranno essere efficacemente impiegate nell’orto, mescolate a compost o concime. Della lana non si butta nulla.

Ancora un ringraziamento a Deborah Gray che ha raccolto sapientemente parte di queste informazioni nel suo prezioso testo Filare a mano: come creare bei filati