Archivi tag: lana biellese

Valentina sotto l’albero


5 dicembre 2011

Inizia l’allestimento natalizio, e presto metteremo sul sito anche le ceramiche natalizie e tutti i prodotti della linea Natale, come i Babbo Natale rossi lavorati a maglia, con la testa fatta a mano, le ciotoline completamente lavorate a mano, perfette per metterci i gomitoli mentre si lavora a maglia, e le pecorelle che abbiamo vestito con maglioncini di lana Oropa bianca e rossa. Abbiamo fatto tutte le fotografie con l’albero di Natale sullo sfondo, piccolino e addobbato con le palline di feltro, con la scritta “Buon Natale” in otto lingue diverse, i pon-pon che abbiamo fatto io e L. qualche giorno fa con la nostra lana, e come neve abbiamo usato il nostro tops di lana Biellese. Adoro l’atmosfera natalizia! È proprio come quand’ero bambina: l’attesa, il freddo pungente, le luci, i regali mi mettono allegria e positività!

V.

7 dicembre 2012

Meraviglia delle meraviglie: oggi il mio amico Pier mi ha accompagnata a visitare il “piano nascosto” della fabbrica, un piano intermedio che fungeva con ogni probabilità da magazzino. È un posto magico, pieno di polvere e dal tipico odore di edificio abbandonato. Sembra quasi la scena di un film dell’orrore, con quei corridoi immersi nell’oscurità, i cavi elettrici pendenti dal soffitto basso e soltanto il debole cono di luce di una torcia elettrica portatile a illuminare dove mettere i piedi. Sarebbe pericolante e pericoloso, non fosse per la solidità dell’edificio che, nonostante sia dismesso da molto tempo (quest’ala della fabbrica è considerata ancora la parte “vecchia”), ha ancora un aspetto massiccio e non accenna a cedere. È stata un’esperienza emozionante. Quando siamo usciti di la, mi sono sentita come uno speleologo dilettante alla sua prima grotta.

V.

8 dicembre 2011

Oggi a casa mia abbiamo fatto l’albero! Palline, fiocchetti e decorazioni hanno riempito tutta la stanza, mentre io e la mia mamma eravamo tutte intente a scegliere il colore di fondo di quest’anno. Ogni anno ha un colore diverso: due anni fa era blu, l’anno precedente rosso e così via. L’anno scorso purtroppo io non c’ero, e non ho nemmeno voluto sapere di che colore fosse l’albero, è stato troppo traumatico il natale in piena estate! Quest’anno comunque la scelta è ricaduta sul bianco e oro. Abbiamo riesumato da un vecchissimo scatolone delle decorazioni che devono avere la mia età ma sono ancora bellissime. Fare l’albero di Natale è per me uno dei momenti più magici di tutto l’anno.

V.

9 dicembre 2011

Giornata di elaborazione grafica. E meno male, perché sono per tre quarti influenzata e non riuscirei a fare nient’altro che stare seduta a soffiarmi il naso! Comunque, sto lavorando sulle immagini dei prodotti di Natale, caricando sul sito le fotografie e aggiungendo la descrizione. Per fortuna non sono da sola in ufficio: L., M.T. e la nostra amica T. mi guardano intenerite ogni volta che tiro su col naso, e mi sembra di essere una bambina piagnucolosa in mezzo a tre mammine che mi coccolano. Speriamo che mi passi presto.

V.

Elisa* intervista Agostina Zwilling


Questa settimana incontriamo Agostina Zwilling, artista e donna di grande carisma che ci accompagnerà nella conoscenza del feltro (e anche un po’ di noi stessi).

Buongiorno, Agostina. La prima domanda è quasi di rito: raccontaci come nasce la passione per il feltro e in generale per il mondo dei tessuti.

Nasce come tutte le passioni: per caso. Molto giovane studio figurinismo a Torino e inizio a sondare tutte le possibili tecniche di manipolazione di fibre e tessuti, perché già allora l’esigenza maggiore era quella di creare non solo modelli, ma anche tessuti originali. Sperimento continuamente nuove combinazioni e abbinamenti di colori, fibre e materiali. In questa mia incessante ricerca creativa ho riscoperto l’antico mestiere della produzione del feltro, che interpreto in modo contemporaneo del tutto personale, fino a testarne le potenzialità, oltre che nel campo della moda, anche nel mondo dell’arte.

Il feltro, quindi, è stato fin da subito arte e comunicazione?

Ho mosso i miei primi passi da artista che ero bambina, cominciando con pittura e scultura. Da lì in poi ho sempre sentito l’urgenza e il bisogno di comunicare e l’arte mi è stata compagna, parallelamente alla mia vita professionale. Pertanto, una volta incontrato il feltro, ho trovato naturale utilizzarlo nelle mie opere, insieme agli altri materiali che già manipolavo.

Il feltro sembra essere diventato una tendenza di questi ultimi anni (tanti i corsi, le produzioni artigianali, l’interesse), ma in realtà è un’arte arcaica, come la definisci tu: nel tuo percorso hai provato a risalire alle origini di questa lavorazione? Cos’hai scoperto?

Il feltro è un tessuto che non ha né trama né ordito, ed è creato semplicemente con le mani senza l’uso di strumenti specifici. Protegge dal freddo, dalla pioggia e dal vento. I popoli nomadi dell’Asia centrale, infatti, lo usano ancora oggi per isolare e arredare pareti e tetti delle loro abitazioni, ma anche per creare letti, tappeti e arazzi. È un tessuto frutto del lavoro comune, soprattutto di donne e bambini, e viene preparato nel periodo della tosatura delle pecore, secondo rituali e gesti che ricordano i movimenti di una danza. I manufatti sono realizzati seguendo solo la fantasia e l’istinto, senza schemi prestabiliti, e proprio per questo risultano carichi di simbologie arcaiche. Per non perdere contatto con questa tradizione, a Istanbul, ad esempio, sono stati istituiti corsi universitari appositamente dedicati allo studio del feltro. Lo stesso vale per il Nord Europa, in particolare per i paesi scandinavi, dove esistono scuole e istituti che offrono corsi di specializzazione sulla tecnica dell’infeltrire. Anche nelle regioni alpine il feltro è molto diffuso e apprezzato. L’Italia, infatti, è un paese con una lunga tradizione di allevamento ovino, tanto che l’industria laniera e tessile negli anni Sessanta ha avuto un grande sviluppo. Purtroppo il boom industriale ha sconvolto l’equilibrio di agricoltura e pastorizia, con effetti devastanti, e come conseguenza sono cambiate anche le abitudini di vita, rendendo obsolete attività che le nostre nonne svolgevano nell’ambito della vita familiare e sociale. Gesti antichi, densi di significati, sono scomparsi all’improvviso con il progresso.
Ripercorrere la storia del feltro è interessante perché attraverso rappresentazioni e tecniche abbiamo la possibilità di conoscere tanti aspetti della vita di un tempo, e credo che il contesto perfetto per questo tipo di ricostruzione storica siano i musei. Ma riprodurre e imitare le vecchie tecniche è limitativo: mi considero una contemporanea e voglio esprimermi nel mio tempo e con il mio linguaggio personale, dialogando con i miei settori di riferimento artistico e professionale.

La lavorazione del feltro è fisicamente impegnativa: la fatica aiuta in qualche modo a esprimere ciò che si agita dentro? Può diventare essa stessa veicolo di comunicazione?

Non parlerei di fatica, piuttosto di un rito che coinvolge tutto il corpo e che aiuta a esprimere piacere e creatività. Queste dimensioni si trovano in stretto rapporto, perché il piacere fornisce la motivazione e le energie necessarie al processo creativo il quale, a sua volta, aumenta il piacere e la gioia di vivere. Con il piacere, la vita è un’avventura creativa; senza, è solo una lotta per la sopravvivenza.

In tanti tuoi lavori utilizzi la tecnica del nunofeltro: di che cosa si tratta?

“Nuno” è una parola giapponese che significa “tessuto”. L’invenzione di questa tecnica viene attribuita all’australiana Polly Blakney Stirling nel 1992, in collaborazione con la sua assistente Sachiko Kotaka. Si tratta di manipolare una quantità minima di fibre di lana con un tessuto puro di base, come garza di seta o chiffon di seta, per poter ottenere un feltro leggero, dalle caratteristiche molto diverse rispetto a quello tradizionale. Il processo di infeltrimento nuno è ideale per ottenere tessuti leggeri, adatti a creare capi d’abbigliamento o accessori moda, in una vasta gamma di effetti e colori, dalle texture decisamente molto interessanti.

Esistono ancora nuove frontiere, sfide, sperimentazioni nell’ambito delle tecniche di lavorazione?

Senza sperimentazione sarei una persona morta. La curiosità di andare oltre la materia mi ha sempre affascinato e trascinato in momenti creativi intensi. Mi è necessario, è un vero e proprio bisogno.

Molte tue opere rappresentano messaggi di denuncia contro la violazione dei diritti umani. Prendono vita in occasione di sollecitazioni particolari, come per esempio una mostra a tema, oppure nascono come esigenza di espressione riguardo a questioni sociali che ti stanno a cuore e attorno a cui desideri destare l’attenzione?

I diritti umani calpestati sono il mio “fil rouge” artistico perché laddove vi sono condizioni di violazione, muoiono i sogni. La denuncia di violenze e soprusi è il tema di tante mie opere, anche se non posso dire che il mio sia un fine sociale: considero i miei lavori esclusivamente come espressione personale e tale resta la loro utilità. Tutto quello che segue (esposizioni, fruizione delle opere da parte del pubblico, e anche un eventuale movimento delle coscienze), per quanto bello e importante, non è mai motivazione della nascita di un’opera. Quella riguarda solo me.

I tuoi lavori sono spesso connessi, in modi diversi, all’Africa: hai un legame particolare con questo continente?

Sì, molto intimo. È alla base della mia riflessione sul corpo femminile e sulla sua rappresentazione. La mia opera Main liée, pied lié, mani e piedi legati, fa riferimento alle minacce esterne a cui il corpo è costantemente sottoposto: è il simbolo dell’impossibilità di muoversi, condizione nella quale noi occidentali vogliamo tenere il popolo africano. La vulnerabilità e la ricerca della propria identità sono componenti fondamentali nel mio lavoro.

Fra le tante mostre a cui hai partecipato, ce n’è una a cui ti senti particolarmente legata?

PELLE, l’ultima mostra di cui sono stata curatrice. L’assunto alla base di questa nuova esperienza espositiva è il desiderio di analizzare il ruolo del feltro come frontiera naturale tra moda e sostenibilità, stimolo e strumento espressivo della creatività, con il chiaro intento di tracciare una nuova strada da intraprendere per l’industria del fashion e del design tessile. È su questa premessa che si sono concretizzati gli inviti alle artiste scelte per la loro attitudine a costruire il “Tessuto Innovativo” con lana organica e fibre naturali. È stata un’occasione importante per mettere in discussione con gioiosa passione e lucido disincanto i miti e i riti del settore moda, profondamente in crisi, indicando la necessità di ri-fondare principi e valori del processo produttivo, in un’ottica di sostenibilità.

Hai fondato l’Italian Felt Academy per poter offrire una formazione di alto livello insieme ad altre artiste: è la risposta a una richiesta che avete incontrato o avete proposto di vostra iniziativa una concezione del feltro qualitativamente più alta?

ItFA si basa sulle mie esperienze e su ciò che intendo per formazione. Credo si tratti di un processo tutt’altro che esclusivamente riconducibile al tradizionale “travaso” di saperi, o al semplice “addestramento” teso a sviluppare capacità tecniche. La formazione è soprattutto un processo educativo fondato sul rispetto e sulla valorizzazione del capitale umano di ogni allievo, ma anche sulla crescita e spendibilità del suo potenziale creativo. In questa prospettiva, per poter insegnare, occorrono esperienze professionali consolidate e, naturalmente, “vocazione formativa”. Conoscere una materia o una professione non basta, occorre saper “tirar fuori” (ex-ducere) da ogni allievo tutto il potenziale creativo e renderlo concretamente uno strumento operativo. La portata di questa didattica sta soprattutto nell’adattamento a una realtà in continua evoluzione: ne è un esempio il rapporto tra lavorazione del feltro ed ecosostenibilità, completamente modificato negli ultimi dieci anni in termini di logiche, sistemi organizzativi e, ovviamente, di competenze richieste alle persone che si accostano a quest’area di attività professionale. Io ne sono convinta e l’esperienza me lo ribadisce ogni giorno: lavorare in questo settore non è più solo saper disegnare, ma saper creare, tenendo conto di tutta una serie di fattori (sociologici, psicologici, culturali, economici, tecnologici, ambientali e via dicendo). In un mondo accademico ancora così pesantemente attardato a rispondere alle nuove esigenze formative e alle attuali complessità del mercato, Italian Felt Academy si fa portatrice di innovazione sia nei contenuti sia nelle metodologie didattiche, affinché il “momento formativo” diventi un’occasione unica per sviluppare nuovi approcci culturali, nuove capacità e competenze indispensabili per consentire la conoscenza delle risorse personali.

Per The Wool School proponi un corso sperimentale particolare dal titolo Wool/Water is Life: FeltGhirba: ci racconti di cosa si tratta e per chi è pensato?

Il corso proposto a The Wool School comincerà il venerdì pomeriggio, per protrarsi poi tutto il weekend. Tema di questi tre giorni sarà la realizzazione di una ghirba in feltro. Si tratta di un contenitore per l’acqua, normalmente realizzato in pelle di capra, fabbricato dalle donne di Berhale, un villaggio della Dancalia settentrionale. È un oggetto carico di significato, per diversi aspetti. Innanzitutto rappresenta l’unico mezzo di sostentamento per queste donne e quindi è alla base di un’economia dall’equilibrio fragilissimo. In secondo luogo serve al trasporto e alla conservazione di un elemento vitale come l’acqua. Proprio sulla preziosità di questo bene comune, vogliamo creare una sorta di legame tutto al femminile. Come ho scritto nella locandina di presentazione, noi donne siamo depositarie di vita, e l’acqua è vita per eccellenza. Il contenitore creato durante il corso diventa così simbolo di noi donne occidentali feltraie, che consideriamo l’acqua un tesoro al pari delle donne etiopi e che, sfidando la materia e lavorandola fino a renderla impermeabile, permettiamo la conservazione dell’acqua per periodi di siccità. Questo è un perfetto esempio di ciò che si diceva prima a proposito della mia didattica: è un progetto che unisce pratica artistica, attenzione all’ecosostenibilità e sensibilizzazione culturale.
Per le nostre realizzazioni, The Wool Box metterà a disposizione diversi tipi di lana raccolta con l’ultima tosa dai pastori di tutta Italia. In particolare verranno utilizzati i sucidi di tre razze: Biellese, Suffolk e Prealpes du Sud.

Ci consigli una lettura che hai amato in modo particolare?

Più che di un libro si tratta di un’autrice: Alice Miller, psicanalista e saggista polacca scomparsa poco tempo fa, che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente. Ha scritto diversi libri e il suo tema dominante è la pedagogia nera, ossia la violenza educativa che i bambini vivono all’interno delle famiglie. È senz’altro un tema che in qualche modo ci riguarda tutti, come figli o genitori, e che merita sicuramente una riflessione.

Filatura con Deborah Gray: last calling

Arrivals di Malpensa. Una valigiona a rotelle stracolma di fusi e filarini. E un largo sorriso che parte dagli occhi e arriva fino alle mani. Equipaggiata del suo entusiasmo contagioso, c’è mancato poco che Deborah Gray tenesse lì la sua prima lezione di filatura, incurante della stanchezza per quel viaggio iniziato al mattino presto nel cuore della Scozia. Solare ed esuberante, basta starle vicino per immaginarsi subito intenti a pedalare e a sgranare tra le dita un interminabile filo di Penelope.

Donna mite e materna, accanto a Deborah tutto sembra più facile: proprio come dando la mano alla mamma ci si sente tranquilli, la sua presenza induce alla calma, e non serve dire quanto ce ne sia bisogno di questi tempi. Anche il suo italiano, condito da un buffo accento d’oltremanica, costituisce un accessorio in sintonia con l’atmosfera di The Wool School. Proprio perché non è la sua prima lingua, la nostra amica ha imparato a soppesare sapientemente le parole e a formulare ogni frase con precisione, sia nel rigore formale sia nel contenuto.

Per l’appuntamento di sabato e domenica è già tutto pronto. Il magazzino trabocca di lane biellesi, d’Abruzzo, fini, ordinarie, chiare e morettate. Alcuni velli interi attendono solo di essere trasformati in filo, lo stesso che in seguito sarà usato per realizzare un maglione, un copricapo, un paio di guanti o semplicemente per formare un gomitolo di cui andare orgogliosi. Ora non ci resta che godere del piacere della filatura: per chi non lo avesse ancora fatto, c’è ancora la possibilità di mettere mano al fuso e di avere la fortuna di conoscere personalmente questa straordinaria donna del Nord.

Ritorno a casa


The Wool Box presenta Asterischi*, la nuova rubrica curata da ElisaNata a Busto Arsizio, mamma del piccolo Lorenzo di sei mesi, Elisa si è diplomata al liceo sperimentale e ha lavorato per diciassette anni in banca, durante i quali si è laureata in scienze dell’educazione. Dopo un’esperienza di un paio d’anni nel sociale, un radicale cambiamento di vita l’ha portata in Namibia. Fino al rientro non programmato nel biellese, dove tutt’ora risiede. Appassionata di cucito e assemblaggio tessuti, realizza creazioni con le sue galline.

Sono le sei del mattino. Riva Valdobbia è in fermento per l’annuale Fiera di San Michele, un tempo fiera del bestiame, riconvertita oggi in una colorata e frequentata festa dell’artigianato. Quest’anno, anziché con il mio adorato pollaio di stoffa riciclata, sono qui in veste di ambasciatrice per The Wool Box, con coperte, gomitoli, manufatti in feltro (tutta lana proveniente dai pascoli biellesi e valsesiani) e tanta voglia di raccontare una bella storia.

Molti gli sguardi curiosi. Li lascio avvicinare, toccare i filati, annusare la lana, accarezzare coperte… E poi non si resiste: ci sorridiamo e le parole scorrono da sole e raccontano di questa interessante realtà a due valli da qui. Il recupero di tose che andrebbero perse perché troppo esigue per essere lavorate con la giusta convenienza, la salvaguardia delle piccole, importanti razze autoctone, l’obiettivo di raccogliere i velli delle centinaia di razze ovine europee, la ricerca e la valorizzazione delle piccole produzioni artigianali legate alla lana, l’entusiamo, i progetti, i corsi… Lascio i pieghevoli con l’indicazione del sito («Così potete dare un’occhiata») e raccolgo gli indirizzi mail di chi vuole essere informato su ciò che accade. Sono qui per raccontare eppure, come spesso accade, mi ritrovo ad ascoltare.

Ascolto la storia del signor Mario, radici biellesi e una vita passata nei lanifici. «Questa sì che la riconosco, questa è la nostra lana, un pò ruvida, ma vuole mettere! Perchè, sa, adesso si usano tutte quelle lane morbide, che sono calde, per carità! Ma con quelle fibre così corte non si possono certo ottenere filati resistenti. Non lo vede che tutti i maglioni di cachemire hanno le toppe ai gomiti? Una volta i maglioni duravano una vita…». Al signor Mario non lascio nessun pieghevole. Tra le mani ha il suo bastone e in tasca la nostra lanosofia ben radicata. Di una tastiera non saprebbe che farsene.

Poi c’è il marito di Annette, tanti anni nei rifugi di montagna dove «le coperte erano proprio tutte così, come queste: lana un po’ cruda, ma calda e soprattutto resistente, eterna». Calore, e qualcosa che non sia effimero: tutto quel che cerca chi arriva lassù, dopo la fatica del sentiero.

Una piccola signora, mani nodose e una nuvola di capelli bianchi, si avvicina ai gomitoli e come mossa da un gesto istintivo, vi affonda le dita e gli occhi si perdono dietro chissà quali ricordi, quasi commossi, come se tornassero a casa. «La lana di una volta…». Ogni parola sarebbe di troppo, cerco di ascoltare la sua emozione. E la ringrazio.

E poi c’è Luca, appassionato frequentatore della valle, nessuna “storia di una volta” da raccontare, ma forse una nuova storia da scrivere attorno alla coperta che decide di regalarsi. «La compro per la baita in Val Vogna!». La conosco quella baita, è a Cà Vescovo, una manciata di casette lungo il sentiero della Val Vogna, che si animano la domenica grazie alla voglia di evasione da cui nessuno di noi è immune. Su una pietra ai piedi dell’ingresso c’è la data di costruzione: 1866. Scommetto che la baita ne ha già viste di coperte così. È probabile che le abbia persino viste nascere, giù nella stalla, alla luce di una candela, tra le mani di una donna che filava di sera. E non posso evitare di fantasticare che, presto, fuori da quella porta, passerà un gregge in discesa verso l’ovile caldo dell’inverno. Sarà proprio quello che ha donato il vello per la coperta di Luca? Mi piace immaginare che sia così e che, una volta ogni tanto, il prodotto di una terra ritorni a casa propria.

Tra tanti incontri, scambi e parole, la giornata è scivolata via. Carico in macchina le mie lane e le mie storie e punto in direzione casa: la valle in discesa, una fila di artigiani e di curiosi che si muove insieme a me, a farmi compagnia. Poi, all’improvviso, tutti fermi. Che succede? Che bello, la transumanza! (E qui, la penna di chi scrive, vorrebbe tanto trasformare la mandria di mucche in arrivo in un bel gregge di pecore, per donare alla storia un finale perfetto! Ma la penna, e la coscienza, si inchinano entrambe alla verità). Arrivano i pastori, in famiglia: bambini sorridenti sul dorso delle mucche, ragazzi che badano all’ordine con energia e con l’aiuto dei fedeli amici a quattro zampe, gli adulti, attenti, stanchi, appagati: in ogni ruga una stagione, in ogni passo la fatica di chi non molla. Il caldo sta per finire, i pascoli hanno donato la loro ricchezza, è tempo di rientrare. A voi, amici preziosi, buon ritorno a casa.

Cento di questi follower

Oggi vogliamo condividere con voi la nostra soddisfazione nel constatare che ormai siete in 100 a seguirci sulla pagina Facebook di The Wool Box.

Certo, nulla a che vedere con i grandi numeri delle strutture organizzate che, complici spinte e incoraggiamenti commerciali, ci “umiliano” con la loro forza realizzando in pochissimo tempo risultati stellari in termini di contatti. Eppure per noi questo numerino a tre cifre è una piccola grande gioia, per cui ci piacerebbe ricambiare in modo adeguato. Ci pensavamo da tempo e abbiamo trovato il modo per dire grazie. E non soltanto al centesimo iscritto, ma a tutti coloro che in questi mesi hanno contribuito al raggiungimento del traguardo.

Abbiamo deciso così di regalarvi un oggetto inconsueto, il primo di una serie, che potrete utilizzare come portachiavi o, in alternativa, come ciondolo per collana, orecchino, anello, segnalibro, decorazione natalizia o in qualunque altro modo la vostra fantasia vi suggerirà. È realizzato con una base in feltro di lana autoctona biellese, ricamato sul perimetro utilizzando un filato, sempre biellese, in due colori. Il kit comprende anche un occhiello, un ago e una fotografia del prodotto finito.

Fedeli allo spirito del blog, ci piacerebbe che fosse la vostra creatività a completare l’opera: da parte nostra vi forniremo il materiale e le istruzioni (attraverso un tutorial su YouTube) per realizzarlo. Basterà indicare un indirizzo a cui spedirlo nei commenti qui sul blog (che verranno mantenuti nascosti) o via mail info@thewoolbox.it: provvederemo quanto prima a farvelo recapitare, ovviamente a titolo completamente gratuito.

Ancora grazie a tutti i follower. Continuate a seguirci qui sul blog e su Facebook: vi aspettano molte altre sorprese.

The Wool Award: il concorso

Ci piace, ci gratifica, ci rapisce. Siamo ipercritiche nei confronti dei nostri colli non perfetti e delle calate imprecise, esaminiamo con scrupolo chirurgico i lavori a maglia delle nostre amiche. Tuttavia molte delle creazioni che vediamo indossate o in vendita sono spesso standardizzate nella elementarità degli schemi, nell’accostamento dei colori, nella scelta dei filati, nel gusto del manufatto. Rare le evoluzioni tecniche e, qualora vi siano, difficilmente comprensibili e divulgabili. Praticamente inesistenti le realizzazioni che riprendono schemi e colori d’epoca. Il risultato è che, nella maggior parte dei casi, il lavoro a maglia continua a rappresentare una produzione marginale, parimenti lontana da una seria ricerca nel passato e da un futuro in evoluzione.

Lo sappiamo bene: non è sempre così, in particolare non lo è per voi che leggete queste righe. Ma solo con un intervento – consentiteci il termine – “culturale” potremo pensare di cambiare le cose e dare maggiore dignità alla nostra attività, al progetto, al settore.

Siamo già al lavoro con alcune di voi che, complice la prossimità geografica che ci ha consentito di conoscerci, stanno creando modelli evoluti o caratterizzati da puntuali riferimenti al passato. Li renderemo pubblici non appena avremo a disposizione un numero adeguato di proposte.

Ciascun modello risponde a criteri tanto semplici quanto rigorosi:

– realizzazione al 100% in lana;

– utilizzo di un quantitativo di filato compreso nei segmenti minore o uguale a 100, 200, 400, 500 grammi;

modelli evoluti (successione di punti e loro concatenamento, tecnica) o modelli del passato (con fonte documentata);

– schemi codificati secondo i criteri del Craft Yarn Council o equivalente.

La sfida che vorremmo lanciarvi è altrettanto semplice e rigorosa. Proponeteci i vostri schemi: ognuno verrà valutato da un comitato interno che, giustificando le motivazioni, provvederà a stilare una graduatoria. Parallelamente, i modelli saranno messi in evidenza sul blog. Quelli che riceveranno il maggior numero di apprezzamenti da parte dei lettori, entreranno in una graduatoria parallela.

I “migliori” lavori per ciascuna delle due categorie saranno premiati con un chilo (il primo) e mezzo chilo (il secondo) di lana 100% autoctona, tracciabile, biellese. Un prodotto assolutamente unico e introvabile, il primo di una serie che stiamo lavorando per rendere la nostra selezione di lane sempre più varia e interessante.

Amore senza peccato

Un quintale circa di peso, lo sguardo pacifico e mansueto, il carattere abituato agli umori scostanti dell’uomo. Essenziale come la sua terra e suoi abitanti, orecchie lunghe e basse, tozza e resistente. È la pecora biellese, che gli specialisti identificano come ovis aries sudanica, comunemente detta anche piemontese alpina.

La biellese giunge ai piedi delle Alpi dall’Asia Minore, dopo secoli di viaggio e incroci, al seguito delle popolazioni transumanti mediorientali. Stando a Massimino Scanzio Bais, è probabile che il vello rustico di queste pecore verso il 1100 abbia fornito la materia prima per i panni degli Umiliati, che «per i loro voti di povertà e il loro carattere popolare trascuravano le produzioni fini». Sembra anche che le stesse, la sera del 23 marzo 1307, abbiano assistito al crollo delle ultime resistenze degli eresiarchi di fra Dolcino.

Solo nel 1600 viene censita nei registri di pastorizia e bestiame biellese e riconosciuta come razza. Nel 1768 fornisce il filato per produrre più di millecinquecento paia di calze al giorno destinate all’esercito del re Carlo Emanuele III. Come ancora racconta Scanzio, «uomini, vecchi, donne e bambini di Pettinengo e Camandona lavoravano a tempo perso la maglia, alla sera mentre attendevano nella stalla l’ora di andare a letto. Le ragazzine sferruzzavano mentre conducevano le bestie al pascolo. Forse sferruzzavano anche gli innamorati mentre stavano tubando. Anzi c’era allora un proverbio secondo il quale “amore con la calza è amore senza peccato”».

Quasi estinta nel dopoguerra, la biellese ritrova vigore a partire dagli anni Sessanta e riesce, nonostante gli incroci casuali, ad arrivare ai giorni nostri.

La pecora biellese non è stanziale, il suo carattere predilige la transumanza e i suoi pastori praticano ancora forme arcaiche di nomadismo. Il suo vello, da tempi immemorabili è stato soggetto alle più svariate lavorazioni, nobili e meno, e solo negli ultimi decenni è stato destinato a imbottiture e tappeti tralasciando le più onerose tecniche di pettinatura: le esperienze di filatura hanno prodotto in tempi recenti quantità amatoriali di cardato, sobrio, rustico e introvabile.

Fino a oggi.

Ma questa è un’altra storia da raccontare…

[continua]