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Si fa presto a dire vello


L’interesse che avete mostrato per i contenuti tecnici ci spinge a continuare a parlare della nostra passione anche in termini operativi. Questo interesse all’approfondimento, che riteniamo fondamentale per costituire la base di un sapere profondo, ci fa pensare che siamo sulla buona strada.

Immaginiamo quindi di frequentare insieme un corso formativo elementare, indispensabile per il successivo perfezionamento, ovviamente dedicato alle sapienze manuali, quelle già proposte con successo nel 2011. Nell’arco di quest’anno le riconfermeremo, ampliandone le dimensioni e approfondendone i contenuti: knitting, felt, wawing, dyeng, design, fashion (per usare una terminologia aggiornata che ci metta in relazione con il resto del mondo).

Come alla scuola elementare s’insegna a tenere in mano la matita e a tracciare segni riconoscibili sul foglio, eccoci a trattare la base dei nostri lavori in lana: il vello. Non stupisca il fatto che, a fronte di una notevole quantità di manuali e testi scientifici sulle fibre e sulle singole lavorazioni industriali, ci si riduca a queste righe per focalizzare l’attenzione sul consueto, quello che tutti abbiamo sott’occhio e di cui, dandolo per scontato, sappiamo poco o nulla. Lasciamo i microscopi alle università, avviciniamoci alla pecora e, docilmente come lei stessa ci ha insegnato a fate, guardiamola e tocchiamole il vello. Chissà che quest’esplorazione non ci sia d’aiuto per apprezzarne maggiormente le peculiarità e per suggerire modalità più proficue di gestione delle tose.

La lana che la ricopre non è sicuramente uniforme né per lunghezza né per finezza, né per pulizia e tanto meno per colore. Se confrontassimo contemporaneamente pecore di razze diverse, ci accorgeremmo della differenza intima e sostanziale dei velli – colore, finezza, lunghezza, nervosità – ma apprezzeremmo il fatto che le disomogeneità di uno stesso vello si ripetono in modo pressoché identico su tutti, a seconda della loro posizione sul corpo dell’animale. In particolare la lana sul collo e sulle spalle risulta più fine e morbida, quella sulle parti posteriori più secca e gialla, quella sulla schiena più fragile, quella sulle cosce spessa e quella sulle gambe ruvida e ordinaria.

Un’osservazione banale e tuttavia chiarificatrice: anche su uno stesso animale la fibra non è identica e, di conseguenza, trattare tutto il vello indifferenziatamente significa solo penalizzare le parti più nobili e diminuirne il valore commerciale. Una volta comprese le differenze, è bene separare le parti in relazione all’uso che intendiamo farne, evitando per quanto possibile di operare divisioni troppo minute, ben consapevoli di quanto intendiamo realizzare: per esempio, una maglia da uomo o una coperta è bene che siano realizzate con fibre melangiate di qualità diversa, in modo da prevedere una buona uniformità del filato (e non restare senza proprio all’ultimo gomitolo).

A seconda delle dimensioni (variabili di razza in razza), si usa suddividere il vello in tre o quattro differenti qualità che, all’insegna della massima semplicità ed efficacia, riportiamo schematizzate qui sotto, laddove 1 indica la qualità “migliore” e 4 quella “peggiore” (ovviamente virgolettato, in quanto migliore e peggiore sono aggettivi relativi all’impiego e non assoluti).

Una volta separato il vello come sopra, dovrete decidere se lavarlo o no, dipende da quanto è sporco (e anche qui leggete un appunto sulle modalità di allevamento). In molti casi è bene procedere alla sola rimozione del vegetale e delle parti ricche di materia organica, in modo tale da mantenere sulla fibra il grasso di lana e la lanolina che potranno favorire le lavorazioni successive. In ogni caso ponetelo all’interno di federe in cotone, traspiranti ma chiuse, e segnate sopra ciascuna il contenuto: razza, data, allevamento, qualità. Ne potrete così fruire agevolmente quando ne avrete bisogno.

Un ultimo consiglio: le parti meno adatte a essere lavorate perché sporche, infeltrite, ingiallite, troppo ricche di materiale organico, potranno essere efficacemente impiegate nell’orto, mescolate a compost o concime. Della lana non si butta nulla.

Ancora un ringraziamento a Deborah Gray che ha raccolto sapientemente parte di queste informazioni nel suo prezioso testo Filare a mano: come creare bei filati

Fingering, DK, Aran o Chunky?

Le lontanissime reminiscenze scolastiche ci riportano sui banchi di scuola a cercare, inutilmente, di comprendere la necessità di un sistema di misura internazionale unificato. Sistema internazionale, Sistema metrico decimale, misure anglosassoni… che confusione! A quell’epoca l’unico problema che si riusciva a immaginare nella babele delle conversioni erano le miglia inglesi, che comunque si confondevano allegramente con la guida a sinistra. Spesso, più che spaventare questa confusione stimolava piacevolmente: leggere “London 100” su un cartello stradale significava il doppio del tempo che si sarebbe impiegato per raggiungere la stessa distanza italiana (anche per la severa applicazione dei limiti di velocità) e questo aumentava il piacere del viaggio estero prolungandolo. Bei tempi.

A distanza di anni l’unificazione metrica è ancora lontana (tra l’altro con la Gran Bretagna non siamo riusciti neppure a raggiungere l’eguaglianza monetaria) e quindi, nel campo dei filati, ci si trova frequentemente a doversi destreggiare tra “Numero metrico” e “Tipo commerciale”, cercando di interpretare la dicitura 1/1750 in termini di Aran, Chunky e via dicendo. Pier e Deborah ci sono ancora d’aiuto e da loro ci lasciamo prendere per mano.

I sudditi di Sua Maestà usano almeno dodici segmenti che individuano altrettanti “Tipo commerciali”. Ciascuno indica il diametro del filato, individuato con il numero di giri necessari per avvolgerlo su un supporto qualsiasi per ottenere una lunghezza pari a 1 pollice (2,5 cm ca.). Tecnicamente si parla di wpi, ovvero wraps per inch (giri per pollice).

Fino a qui nulla di particolare; si tratta di prendere un righello e avvolgervi sopra un filato fino a realizzare un tratto compatto di spire lungo 1 pollice. Dimensioni, forma e natura del righello non hanno alcuna importanza. Fatto? Bene.

Si tratta ora di contare il numero di spire contenute in quel pollice. I filati più fini ne avranno un numero maggiore, anche 27, rispetto a quelli più grossolani che non supereranno i quattro.

Ebbene, gli inglesi pragmaticamente non fanno altro che avvolgere un filo su un righello e contare il numero di spire, in questo modo sanno con che tipo di filato hanno a che fare. La pratica, si sa, rende perfetti ma anche un po’ gelosi, quindi i nostri amici d’Oltremanica si sono inventati dei nomi tali da permettere ai soli iniziati di capirci qualcosa. I filati più fini li hanno chiamati “Lace”, quelli più grossolani “Chunky”. Incominciate a intravedere la luce, vero?

Aspettate tuttavia nell’esaltarvi perché è ancora necessario fare un passo in avanti: si tratta infatti di capire se il filato sia a un solo capo o a due. Ricordate gli appunti S e Z e quindi l’instabilità di quello a un solo capo? Bene; questa tabella vi aiuterà a meglio comprendere le suddivisioni.

E ora, fedeli alle misurazioni continentali, ecco le definizioni europee per le quali il filato è valutato in termini di numero metrico (Nm), ovvero quanti metri di filato sono contenuti in 1 kg.

Ora dovrebbe essere tutto più chiaro.

Quando si parla per esempio di “Super Chunky”, si intende un filato di numero metrico compreso tra 700 e 600 (con 1 kg si srotolano 6-700 m ca. di filo) che arrotolato su un righello comporta la nascita di 4/5 spire per ogni pollice; un filato quindi adatto per lavori di aguglieria pesante.

Un filato “Sport” invece è quello caratterizzato da un numero metrico pari a circa 3500 ca. che se avvolto su un righello darà origine a 12 spire ca. Ideale quindi per capi più leggeri di quelli del precedente.

Un ultimo regalo da Deborah: quali ferri utilizzare per lavorare al meglio un filato? Niente di più facile. Anche in questo caso empirismo e praticità: basta misurare quanti millimetri intercorrono tra due fili adiacenti avvolti sul supporto. Quel numero sarà il diametro espresso in millimetri dei ferri più adeguati.

Esse e zeta

Quando tra qualche anno guarderemo alle testimonianze che lasciamo giorno dopo giorno su queste pagine, confidiamo di ritrovarci tra le mani una sorta di manuale della lana, dei velli, delle lavorazioni e delle fonti di ispirazione.

Durante il suo workshop sulla filatura manuale Deborah Gray c’è stata di enorme aiuto per comprendere il significato della terminologia tecnica che caratterizza un filato, specie se realizzato a mano. Uno dei dubbi su cui ha fatto piena chiarezza è il significato di “torsione S” e “torsione Z”. Un filato viene realizzato unendo fra loro più fibre elementari, che stanno insieme conformemente alla loro natura, lunghezza, finezza e alle caratteristiche meccaniche che vengono loro impresse. Filando, infatti, le fibre vengono sottoposte a un movimento di “avvitamento”, che è inversamente proporzionale alla tendenza delle stesse a restare unite tra loro: in pratica, più le fibre manifestano la naturale tendenza a stare unite, minore è lo sforzo richiesto per ottenere tale risultato.

Prendendo in mano un filato e osservandolo attentamente, si pone subito una questione: da che parte avvitare le fibre? Queste infatti si possono avvolgere da sinistra in basso verso destra in alto (torsione Z), o viceversa da destra in basso verso sinistra in alto (torsione S).

Realizzando a mano un filato a un solo capo, si comprende immediatamente come questo non sia in equilibrio, ovvero tenda a ritorcersi su se stesso arricciandosi e stringendo ancora di più le fibre, condizione che lo rende, di fatto, inutilizzabile. È però affascinante scoprire che accoppiando tra loro due filati così instabili, a patto che lo siano allo stesso modo (S o Z), le forze “distruttive” si annullano dando origine a un nuovo filato che ha trovato un suo equilibrio perfetto perché torto esattamente con la metà della torsione del filo singolo. Così due filati disequilibrati di torsione Z si accoppiano fra loro generando un filato S in perfetto equilibrio (naturalmente vale anche il contrario) ciascuno cedendo metà della propria dote di torsione.

A questo punto non c’è limite alla fantasia e, compreso il meccanismo, si potranno accoppiare altri filati a patto che abbiano lo stesso verso di torsione. Per esempio sarà possibile realizzare un filato a tre capi, accoppiando due capi S (Z+Z) con uno a un solo capo di torsione S: insieme daranno origine a un filato Z. Semplice, vero? Provare per credere.

In conclusione, è facile osservare che dal punto di vista della stabilità del filato un buon prodotto sarà sempre ritorto e mai a un ply singolo. Solo in questo modo non tenderà a sciogliersi. Viceversa il filato a un solo ply tenderà a srotolarsi anche quando sarà già stato trasformato, per esempio in maglia, causando da subito lo “sbilanciamento” dell’intero capo finito, specie al primo lavaggio, quando le fibre tenderanno a rilassarsi.

Vi lasciamo con un ultimo suggerimento ricevuto dalla nostra maestra: «Quando archiviate un filato che avete realizzato a mano, indicate se è Z o S: così potrete abbinarlo correttamente a seconda che lo sposiate con un filato S o Z». A questo punto, via alla marcia nuziale e… buoni lavori.

Tinture vegetali: istruzioni per l’uso

L’abbiamo acquistato anche noi. Lo abbiamo fatto senza alcuna malizia vestendo i panni dell’appassionato e, scuciti i 12 euro, ci siamo infilati in tasca la scatoletta contenente il kit di tintura casalinga, dopo aver sbirciato il contenuto dei quattro involucri da 25 grammi e verificato che corrispondesse a quanto atteso. In realtà i dubbi sono iniziati immediatamente quando abbiamo capito di dover acquistare anche l’allume di rocca, venduto separatamente in bustine di peso idoneo alle quantità di lana tingere, e si sono ulteriormente consolidati al momento di interrogare la venditrice sul cremor tartaro. La risposta, naturale quanto cortese, è stata di rivolgersi al droghiere: lì, ci ha confermato la sorridente signora, avremmo potuto trovare il migliore, quello per i dolci.

Sopraffatti da tante mirabolanti visioni e, ahinoi, altrettanti acquisti ci siamo dimenticati della scatolina magica fino a quando siamo rientrati a casa. Lì con calma l’abbiamo ispezionata nei dettagli, tirando un sospiro di sollievo: almeno l’assortimento era interamente vegetale, senza alcun componente di derivazione animale o men che meno sintetico. Eppure un errore di valutazione l’abbiamo fatto. Anzi, tre.

In buona sostanza il primo inciampo emotivo lo abbiamo commesso nel non approfondire subito l’oggetto dell’acquisto: ci siamo lasciati influenzare dall’ambiente, dal venditore e dai prodotti che aveva in esposizione e tout court abbiamo fatto di tutta l’erba un fascio, fedeli all’adagio greco «kalòs kai agatòs» (ciò che è bello è anche buono). Il secondo lo abbiamo commesso abbandonando il rigore assecondando l’emozione, trovandoci a che fare con un articolo di cui non era specificata alcuna provenienza, neppure un “made in”. L’ultimo errore è stato il non aver preteso dal venditore informazioni più dettagliate e puntuali, informazioni che probabilmente il venditore stesso non sarebbe stato in grado di fornirci.

Al di là di tutto, quell’acquisto si è rivelato una fonte di ispirazione, proprio per le ombre che lo hanno connotato: dalle modalità di vendita all’assenza di indicazioni di provenienza, dall’incompletezza degli ingredienti fino alla grossolanità dell’approccio. L’idea del kit di tintura casalingo (che già avevamo da tempo in testa) ci è comunque piaciuta e ne abbiamo parlato immediatamente alle nostre amiche di I colori del Mediterraneo che ci hanno messo sulla strada giusta. «Ai vegetali ci pensiamo noi. Dateci un campione per ciascuna fibra che avete in mente di tingere e lasciateci lavorare». Sorpresi, abbiamo finalmente imparato una regola fondamentale: «Non esiste una ricetta buona per tutto: i prodotti che millantano tale proprietà, probabilmente non vanno bene per nessuno». Con la semplicità tipica di chi “ne sa” veramente, le nostre ricercatrici ci hanno confermato l’intenzione di formulare una ricetta di tintura specifica per ciascuna tipologia di fibra che venisse loro sottoposta.

In buona sostanza, pur non presentando differenze significative, ogni ricetta deve essere tarata in relazione alle caratteristiche intrinseche del tops, del filato, del feltro cui è destinata, a partire dalle proprietà microscopiche della fibra, consolidandosi nella tecnica di realizzazione del prodotto finito.

Sia ben chiaro, tutti possono e – ci mancherebbe – devono poter sperimentare in piena libertà (fa parte del patrimonio esperienziale di ciascuno), tuttavia coloro che si propongono di elevare la conoscenza della materia sono tenuti a fornire adeguati strumenti di comprensione dei fenomeni e, nel caso, mettere a disposizione prodotti in grado di supportare tale conoscenza con l’esperienza. È una questione di approccio e di serietà.

 

Montagne di lana

Pagliosa, barbe, moretta, fine, ordinaria. Con rigore e metodo, frutto dell’esperienza di un’intera vita professionale, il nostro Mario passa a mano uno a uno i velli che gli allevatori portano quotidianamente al nostro centro-raccolta e li separa con sapienza nelle diverse montagne di lana (con relativa indicazione di origine: pancia, schiena, posteriore eccetera) che in questi giorni hanno invaso il magazzino della nostra Wool Company.

Montagne di lana profumata, stipata a mano dentro sacchi dell’immondizia, contenitori di carta già usati per il mangime degli animali da cortile o talvolta in bisacce per lo più lacere e mal chiuse. Lane disomogenee e spesso sporche, che dimostrano quanta strada c’è ancora da fare. Lo sa bene chi è venuto da noi per imparare a organizzare più proficuamente le attività di tosa.

Può sembrare incredibile, ma molto spesso gli stessi allevatori sono i primi a non considerare adeguatamente il valore dei propri velli. La tosa viene vista come un male necessario, un’incombenza da svolgere in fretta e alla meno peggio: tanto prima, tanto meglio. Il risultato è che quando la lana sucida arriva in magazzino necessita di un’importante dose di manipolazione (quella che compete al nostro Mario per l’appunto) per essere adeguatamente suddivisa e destinata agli utilizzi più opportuni.

Per ovviare al problema e consentire all’allevatore una maggiore valutazione commerciale del suo prodotto, il Consorzio Biella The Wool Company ha prodotto un manuale pratico estremamente chiaro, semplice ed efficace. Il testo, preciso ed elementare come qualsiasi documento che voglia veramente servire a qualcosa, è contenuto in due fogli A4 piegati a libretto. Un vero e proprio vademecum della tosa da tenere nel taschino della giacca.

Si parte ribadendo il concetto fondamentale che la lana deve essere considerata una materia prima e che bisogna fare tutto il possibile per garantirle un giusto valore economico e commerciale. Si prosegue poi con le regole generali per la tosa dove, tra le altre, sono ribadite le precedenze: prima i velli più fini, gli animali più giovani, i velli bianchi. Nel documento sono indicate le precauzioni da prendere per evitare l’“inquinamento” da vegetali, le buone pratiche di alimentazione degli animali nelle ore che precedono l’operazione, le corrette modalità di raggruppamento degli ovini e infine le corrette modalità di tosa e imballaggio. Regole semplici alla portata applicativa di chiunque, che non obbligano l’allevatore a sforzi organizzativi particolari consentendogli di raggiungere l’importante obiettivo di valorizzazione della sua lana.

Chi vorrà farci visita, potrà toccare con mano l’effetto concreto di queste attenzioni. Abbiamo fatto realizzare alcuni plaid – simili per lavorazione, forma, dimensioni e trattamenti di finissaggio – derivati in parte da velli raccolti “alla buona” e in parte da un’attività più attenta. Il risultato è evidente alla mano e agli occhi. Per carità, lunghezza media, finezza e resa continueranno a essere appannaggio di operatori professionali in grado di valutare a vista il destino del vello e il nostro Mario continuerà a esserci indispensabile ma, con l’applicazione di poche e chiare regole, si potranno raggiungere concreti miglioramenti. Anche questo è cultura della lana.

Un giorno da pecora

Vi abbiamo già mostrato le foto del nostro Primo maggio dal barbiere insieme alle Prealpes du Sud. Discendenti da razze siriane, queste pecore sono originarie degli altopiani profumati di lavanda a cavallo dei dipartimenti di Drome, Ardeche e Haute Alpes. Rapida a saziarsi, pigra nel movimento, il ventre basso e le orecchie corte: l’aspetto più evidente della pecora Prealpes du Sud è il petto, privo di fibra. Pare che questa conformazione serva a limitare il fastidio dei vegetali che nell’erba alta altrimenti si aggrapperebbero fastidiosamente al ventre. La ricoprono lunghe fibre dalla groppa e dai fianchi, rendendola elegante come se fosse vestita con un abito lungo.

Una parte delle pecore ci aspettava in stalla a Caluso, mentre abbiamo incontrato le altre tra l’alta Valle Susa e il Briançonnais, migrate ai pascoli alti per la stagione estiva dopo l’inverno trascorso ai piedi del monastero di Bose. Tendenzialmente sedentaria, questa razza ha dovuto adattarsi alle esigenze degli allevatori che l’hanno portata fino ai pascoli d’alta montagna.

In quel di Caluso, abbiamo aiutato il nostro amico Ezio a prelevare le pecore dal recinto una alla volta, con perizia consumata, aiutandosi con il pastorale, per poi passarle a Giuseppe che, lesto di mano, ha tolto loro il cappotto con abilità tale da consentire la perfetta integrità della consistenza del vello. Analoga attività si è svolta a Bose, dove gli animali hanno dimostrato pazienza e umiltà quasi monastiche.

Questa mitezza è pareggiata dalla scarsità della fibra: con un chilo, un chilo e mezzo di sucido da ogni pecora, il prodotto della tosa è stato di 100-150 kg di lana, non di più. A segnalare la presenza degli agnelli, qualche chilo di vello particolarmente corto e fine, le cui estremità della fibra erano raccolte a punta, segno che prima di allora quegli animali non erano mai stati tosati.

I cento chili di Ezio unitamente ai duecento di Giuseppe non forniranno più di 130-150 kg di filato, ma tra noi e quella lana sucida è stato amore a prima vista: l’abbiamo comprata e quanto prima la metteremo in lavorazione per poterne disporre. Chi vorrà, a settembre potrà utilizzare questa fibra che a partire da oggi inizia la sua gestazione: verrà privata di vegetali e residui organici, selezionata per finezza, lavata, pettinata, filata, trasformata in matassa o avvolta su rocca e, se sarà possibile viste le ridotte quantità a disposizione, suddivisa in due parti di differente mano e colore. Un percorso di circa quattro mesi, sulla cui evoluzione non mancheremo di aggiornarvi.

Pecore dal barbiere

Domenica primo maggio, in barba ai battibecchi che spesso caratterizzano la ricorrenza, abbiamo celebrato il lavoro a modo nostro, tosando un gregge di pecore della razza Prealpes du Sud. Le abbiamo trovate in parte in stalla, nella fertile piana eporediese di Caluso, in parte a cavallo tra l’alta Valle Susa e il Briançonnais, migrate ai pascoli alti per la stagione estiva dopo l’inverno trascorso ai piedi del monastero di Bose. A breve, vi racconteremo nei dettagli quest’esperienza irripetibile. Intanto, vi lasciamo qualche foto ricordo della giornata.

Ecco le nostre Prealpes pronte per la tosa.

Forza ragazze, si comincia.

Una bella sforbiciata…

… et voilà: tanta, morbida lana.

Le mani esperte saggiano la tenuta della fibra…

… e le estremità a punta della lana degli agnelli alla prima tosa.

Intanto gli animali si riposano dopo la seduta dal barbiere…

… prima di ripartire verso nuove avventure.

Cardato vs pettinato

Molte delle mail che riceviamo testimoniano un forte interesse per la lana cardata, senza tuttavia specificarne l’uso: nastro da infeltrire o filare, filato da tessere, matasse o gomitoli da lavorare a maglia, in alcuni casi si accenna a panni e tessuti. Più in generale, l’impressione è che il termine “cardato” sia un sinonimo di lavorazione artigianale, naturale.

In realtà, tutte le lane, anche quelle lavorate interamente a mano, passano attraverso un qualche processo di cardatura che risulta indispensabile per favorirne la mondatura da vegetali, l’arieggiatura e, sicuramente, l’organizzazione delle fibre per renderle adatte alla successiva trasformazione in filato.

Nei processi industriali tali lavorazioni sono effettuate impiegando macchine progettate a questi scopi, le carde, che nel flusso operativo della filiera seguono il lavaggio della fibra, preparano il lavato alla pettinatura e lo trasformano in nastro o in stoppino.

Per quanto riguarda la produzione di filato è bene differenziare. Le lane fini e lunghe sono destinate a essere pettinate e trasformate in nastro: le fibre vengono prima parallelizzate e poi avvolte su loro stesse assialmente. In questo processo le fibre corte vengono eliminate e il risultato è un filato resistente e fine. Le lane corte vengono invece cardate: contrariamente al sistema precedente, le fibre non sono rese parallele fra loro ma incrociate in ogni direzione, prima trasformate in stoppino e poi filate. Il risultato è un filato corposo, tuttavia meno resistente e di titolo inferiore al precedente.

Dalle caratteristiche del filato conseguono le caratteristiche dei prodotti finiti che – fatte le debite eccezioni per le cosiddette fibre nobili – saranno leggeri e freschi se ottenuti da lane pettinate, fisici e caldi se da lane cardate.

Una curiosità: in lingua inglese non esiste un corrispettivo di “filato pettinato”, che viene chiamato “worsted“, termine che si crede derivi dal villaggio di Worstead nell’East Norfolk, a cui viene fatto risalire il primo esempio di lavorazione con pettinatura meccanica.

 

Storie di lana: la mangiauomini

«Acquaaa, acquaaa!»

Quando il macchinista faceva sentire il suo grido, tutto il reparto sapeva di doversi tenere lontano da quella che veniva chiamata “la mangiauomini”. Divinità meccanica terribile e infaticabile, dal cui grembo prolifico incessantemente usciva lo stoppino che andava filato.

La carda, che ammaliava con il suo incedere regolare, necessitava di cure costanti, registrazioni amorevoli e continue. Scendere nel suo intimo – la fossa – era privilegio di pochi. Un compito affascinante e pericolosissimo. I grandi tamburi guarniti da pettini argentei lanciati in velocità e il rumore sommesso, costante e ipnotico, spesso inducevano gli uomini ad abbassare la guardia. La macchina, allora, esigeva un sacrificio e lo celebrava.

I macchinisti si riconoscevano subito: senza una mano, a volte privi di un braccio, dignitosi nel portare quelle ferite di guerra, cicatrici mai ostentate ma nemmeno da nascondere.

Sentendo gridare: «Acquaaa!», gli operai comprendevano che la carda stava per essere messa in funzione e, allontanandosi, la abbandonavano alla sua lenta e inesorabile partenza.

Quel grido non si sente più da anni, è stato sostituito dalle sirene, e l’acqua, che un tempo generava la forza motrice, oggi è importante in relazione alla produzione di energia elettrica. Gli infortuni sono diminuiti drasticamente grazie alle leggi, agli operai, agli imprenditori, agli ingegneri. La mitologia è stata addomesticata e, finalmente, ricondotta a esercizio di raziocinio.

Il ciclo della lana: il lavaggio

Il secondo passaggio della catena di lavorazione della lana è il processo di lavaggio. La lana selezionata ed eventualmente mistata (fibre diverse vengono miscelate per ottenere il filato desiderato) viene battuta per aprire i velli, togliere polvere e terra e impurità vegetali, e poi lavata all’interno di vasche con acqua a temperature differenti, da fredda a calda e infine tiepida. Ai fini della sua economizzazione, l’acqua viene riutilizzata in continuo. Durante questa fase, enormi erpici muovono delicatamente il vello e lo accompagnano nella corsa verso l’ultima vasca. Da lì il fluido, che contiene in sospensione una forte componente organica, è indirizzato a una centrifuga, che permette di estrarre il grasso di lana, da cui si ricava la preziosa lanolina. Il tecnico di lavaggio conosce il risultato che deve ottenere e regola il sistema affinché il processo si svolga correttamente. Infine si procede all’asciugatura. Al termine di quest’operazione la lana (il “lavato” in gergo) è pronta per essere trasformata in filato cardato o avviato alla pettinatura. L’acqua residua degli impianti di lavaggio viene fatta confluire in impianto di depurazione e i reflui, allontanati e smaltiti.