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Noblesse oblige: le merinos, pecore di sangue blu

«Il 12 ottobre 1786 un gregge di 366 pecore (324 femmine e 42 maschi), partito da Segovia in Spagna il 15 giugno, giungeva all’Ovile Reale di Rambouillet …».

Pare assurdo, oggi, pensare a una così minuziosa descrizione di un gregge peraltro neppure così numeroso. Le ragioni sono da ricercare in quel particolare contesto storico, economico e sociale. Sulla Spagna regna Carlo III, già principe ereditario del Granducato di Toscana, il primo stato al mondo ad aver abolito la pena di morte. Goya dipinge le scene della quotidianità dando dignità di cronaca alla gente del popolo, ai contadini, ai militari, ai bambini delle campagne. Ancora qualche anno e nel 1789 scoppierà a rivoluzione francese. Da un solo anno ha visto la luce il primo telaio meccanico.

L’Europa vive, insomma, una stagione illuminata, prodromo della modernità. In questo clima di intelligenza e fiducia, i rapporti tra le famiglie delle grandi monarchie europee vengono sugellati con doni inconsueti che rompono quelle logiche di chiusura, paura e miopia che fino ad allora avevano caratterizzato i rapporti tra stati.

Incredibile a dirsi, ma le pecore hanno in queste dinamiche un ruolo cruciale. Fino a quel momento era vietata, pena la morte, la trafugazione di pecore dalla Spagna. La finezza delle “merinos” era ritenuta talmente importante per quell’economia che si tentava di annullare in ogni modo il rischio di perdita dell’esclusività della razza. È così che le merinos di Spagna, graditissimo dono di distensione fra potenze, divengono messaggere di pace in questo nuovo clima di fiducia nel mondo. Fatte incrociare con le razze locali, ne aumentano il pregio e danno origine a nuovi ceppi che rappresentano ancora oggi il massimo della finezza europea. Il dono è così gradito che viene ripetuto tra le case regnanti. Così le nostre eroine si trasferiscono e trovano dimora nell’impero asburgico, in terra d’Albione e in quella miriade di staterelli che era all’epoca l’Italia. In quel periodo eccitante, Cook sbarca in Nuova Zelanda e nel 1788 quelle terre entrano a far parte del Nuovo Galles del Sud, propaggine australe del governo britannico.

Perché questa carrellata storica? Perché a bordo delle navi che dalla Gran Bretagna partivano alla volta dei mari dell’altro emisfero, erano ospitati quegli animali rustici, facilmente adattabili ai climi più disparati, buoni riproduttori, ottimi fornitori di carne magra e digeribile, sfruttabili per il vello … insomma, le pecore merinos.

È così che dalla Spagna della seconda metà del Settecento le merinos, dopo secolare permanenza iberica, si diffondono non solo in Europa ma in quella porzione di mondo dove oggi costituiscono la maggiore fonte di reddito e ricchezza di un’intera nazione conosciuta grazie a loro e agli All Blacks: la Nuova Zelanda, dalla quale proviene la maggiore quantità e la migliore finezza mondiale di lana. Per concludere, un rapido albero genealogico.

Noblesse oblige.

Esperienze sensuali

Nulla di pruriginoso, non temete: quando parliamo di esperienze sensuali ci riferiamo al riappropriarsi dei propri sensi.

Anche questo è possibile grazie alla lana. Toccarla, apprezzarne il colore, avvicinare al viso la matassa, tuffarci dentro il naso e odorarla, sentire il filo tra le mani ritornare morbido alla sua forma originale o saggiarne la ruvidezza. Esperienze che si imprimono nella memoria, che – per dirla con Baricco – ti seminano «dentro un’immagine, un odore, o un suono che poi non te lo togli più. E quella lì era la felicità».

Il profumo, per esempio. Possedere quello di una persona, di una materia, di un oggetto «è come rubarne l’anima. Come assimilarne la personalità», suggerisce Suskind.

Le storie di lana sono anche storie di olfatto. Recentemente ci siamo imbattuti in una lana proveniente dall’Est, probabilmente dalla Romania. Passato rapidamente di mano in mano, quel filato ha trovato la sua corretta origine. Non è stato neppure troppo difficile attribuirgli un’identità: il profumo era davvero unico. Così come, qualche tempo fa, tra migliaia di tonnellate di sucido asiatico, spiccava un’essenza di Nuova Zelanda. Inconfondibile.

È il nostro quotidiano: il magazzino odora di pecora e ogni lana ha il suo specifico aroma. Un profumo pungente dal bellunese per le poche Lamon, terroso per le Alpagote, dolce per il Merinos dal Galles, forte per la Sambucana, delicato per la Biellese, aspro per la Brianzola, solo per citare alcune delle varietà che nel nostro magazzino attendono pazienti il momento di essere filate.

Riappropriarsi dell’olfatto, un senso bistrattato, confinato a individuare odori molesti o uniformato nelle profumazioni per ambienti, è ancora possibile. È un’esperienza che tutti dovremmo fare, quella di annusare la lana tosata, attribuirle un’origine e approdare al prodotto finito spesso ancora fortemente caratterizzato. Come dei sommelier sui generis, originali e sicuramente controcorrente.